Andrea Canevaro-CENTRO STUDI PEDAGOGIA DELLA MEDIAZIONE
Sostegno evolutivo - Welfare di prossimità |
La sfida è quella della crescita. In un percorso di verità.
Nell’anno scolastico 2014/2015 – ci ricorda la FISH – gli studenti in Italia sono 7 milioni 900 mila con 728.325 insegnanti. Gli insegnanti di sostegno sono 101.000 circa per una popolazione di studenti con disabilità di circa 207.000. l’organico di sostegno è quindi in un rapporto 1 a 2. Il rapporto tra docenti di sostegno e docenti curricolari è di 1 a 7.
La FISH ha sostenuto la necessità di creare una classe di concorso, e quindi una specifica formazione,e una specifica graduatoria,per gli insegnanti di sostegno. Per uscire dalla considerazione di essere insegnanti di serie B. E sempre la FISH ha invocato l’utilizzo di specifiche figure assistenziali, proprio per evitare che vengano affidati compiti impropri agli insegnanti di sostegno.
L’argomento è tale da suscitare dibattiti piuttosto accesi. Può accadere che il tentativo di rivedere il “sistema sostegno” venga interpretato come minaccia: di sopprimere i “sostegni”. Di voler mandare allo sbaraglio. Di sabotare il percorso dell’integrazione.
Varrebbe la pena domandarsi quale sia l’immagine dell’integrazione che si è diffusa con il “sostegno”.
Proviamo a chiarire che:
Aggiungiamo:
Siamo soliti dire che l’Italia ha creato un sistema scolastico inclusivo di cui essere orgogliosi. In parte è vero. Ma si regge in buona parte sul “sottosistema del sostegno”. Che occorre sia “aperto” e capace di contaminare contaminandosi.
In Europa – valutazioni PISA – all’inizio di questo secolo, due paesi hanno praticato un sistema scolastico inclusivo migliorando efficacemente le loro condizioni che erano caratterizzate da una forte segregazione. La Germania ha ridotto il ruolo delle filiere corte di scolarizzazione professionale a vantaggio della scolarità comune. La Polonia ha condotto una politica analoga, allargando la base comune a tutti, e posticipando di un anno l’orientamento nel secondo ciclo.
Il risultato, nei due paesi, è un aumento del livello medio degli allievi un abbassamento degli scarti di competenze: non sono gli allievi “forti” che sono meno numerosi, ma i “deboli”, in una importante evoluzione dell’intero sistema scolastico. L’effetto dei “pari” ha giocato un ruolo decisivo.
È in questa prospettiva evolutiva che dovremmo rivedere il nostro “sistema del sostegno”, avviandolo verso un “sistema dei sostegni”.
Chi vive con un suo deficit non dovrebbe vivere tutta la vita “sotto protezione”, o famigliare o del sostegno, anche specializzato in maniera specifica. Deve poter fare incontri di prossimità, scoprendo che chi incontriamo magari per caso è una risorsa. Questo non esclude, anzi, che possa avere bisogno di aiuti più mirati e specifici.
In questo modo, chi vive con un suo deficit non è più solo un fruitore – di aiuti, di assistenza, di sostegno – ma si scopre essere un contribuente nell’economia della conoscenza. Un attore della didattica inclusiva, utile per tutti, innovativa e capace di accrescere le competenze. Purché … non venga “sequestrato” in un “sostegno”, anche molto competente, ma esecutore di programmi ed esclusivo.
La necessità di riconsiderare il “sistema del sostegno”.
Questo, come si è detto, è un problema delicato e fonte di molti malintesi. Sembra che il fatto di riconsiderare il “sistema del sostegno” sia percepito come un vero e proprio attacco all’integrazione, e anche agli insegnanti di sostegno. Sembra che vi sia la convinzione diffusa che l’integrazione possa esistere unicamente con e grazie al “sostegno”. Anzi: per realizzarla più solida, dovremmo avere più ore “di sostegno”, o – come purtroppo si dice – una “copertura” oraria più completa. In questa ottica, vengono utilizzati in ruoli impropri (di insegnanti di sostegno) educatori di cooperative, il più delle volte impegnati da enti locali messi alle strette dalle famiglie e attraverso gare d’appalto che seguono il principio del costo al massimo ribasso.
Riconsiderare il “sistema del sostegno” può voler dire:
Chi ha il compito di “sostegno” può svolgerlo con una dinamica evolutiva, che contenga cambiamenti per coinvolgimenti di altri soggetti, e fare dell’incontro fra soggetto con la sua disabilità e insegnante di sostegno non l’incontro unico, ma l’incontro che apre ad altri incontri.
Il “sostegno” particolarmente competente può mettere la propria competenza a disposizione di colleghi/e e di quanti sono attivi nel contesto in cui il soggetto con Bisogni Speciali sviluppa la propria vita; e il “sostegno” può favorire la scoperta progressiva dei sostegni di prossimità, composto dai coetanei, e dalle persone che sono nel contorno sociale del soggetto, dall’autista al negoziante, al custode ...
Il “sostegno”, da unico ed esclusivo, può diventare sostegno evolutivo e organizzare, coordinare, esigenze plurime:
Come é importante che "sostegno" sia uno spazio aperto a incontri, che possono essere produttivi anche con persone non in possessori titoli di specializzazione ... e non sia fondato sulla gelosia che si appoggia alla presunzione di essere l'unico sostegno ...
Leggiamo quanto scrive una mamma, Alessia Brunetti:
“Ieri alla festa della parrocchia, Emanuele era con i suoi compagni di classe. Che sanno che lui ha alcune particolarità e se non prendono cura.
Se lui va in mezzo alla pista mentre ci sono gli sbandieratori, un suo compagno lo va a prendere e con il sorriso lo riporta indietro. Se si allontana, i suoi amici lo ripescano. Il tutto in un grande clima di amicizia, risate, abbracci e pacche sulle spalle da veri piccoli uomini. E lo riprendono se fa qualcosa che non va.
Cenavano allo stesso tavolo e ad un certo punto Samuele mi ha chiamato, per dirmi che Emanuele aveva contato fino a 10 con le dita delle mani! Era stata Melissa a proporre di fare tutti questo gioco e faceva contare Emanuele alzando un ditino per volta.
Insieme ai suoi compagni è stato seduto 30 minuti per terra nell’aspettare che un piccolo spettacolo teatrale iniziasse.
Tempo fa sono andata a leggere un libro per bambini nella scuola di Emanuele e quando gli altri mi hanno visto, due mi hanno chiesto se ero la mamma di Emanuele e poi Alessio ha detto: “ io sono il miglior amico di Emanuele!” e poi Francesco “no, sono io il miglior amico di Emanuele!”… in realtà il miglior amico di Emanuele è Samuele, che ha chiesto alle maestre di metterlo vicino di banco ad Emanuele e che non si vuole più spostare.
Samuele ogni volta che Lele fa qualche stranezza, ride e lo “ripesca”.
Francesco invece ha attenzioni anche per Maria Luce. Che magari non riesce a fare le cose che fanno i bimbi di 6-7 anni (lei ne ha quasi 4) e quindi rimane indietro ….e Emanuele non riesce ad aiutarla …
Francesco allora la prende per mano e la porta lui, come farebbe un fratellino maggiore.
Ieri sera avrei potuto non esserci, nel gruppo di amichetti di 6 anni tutti funzionavano bene e si sorreggevano a vicenda”.
Il solo essere vivente in cui appare “spontaneamente” l’utilizzo del dito per indicare un oggetto, è il piccolo umano. È la stimolazione significante [B. CYRULNIK (1995), La naissance du sens, Paris, Hachette, p. 53].
Nella storia dell’Anffas bolognese c’è stata, e speriamo ci sia oggi e in futuro, una parola importante: accompagnamento. Verso dove? Dove chi viene accompagnato deve andare. Non, quindi, dove vuole andare chi accompagna. Non è un aspetto secondario. E chi accompagnalo fa con i suoi sentimenti, le sue convinzioni …
Sottolineiamo tre conseguenze:
Ma aggiungiamo una considerazione che riguarda il fatto che chi accompagna non fa di professione l’accompagnatore. La conseguenza è una domanda: con l’ingresso di operatori professionali, chi accompagna scompare, o diventa un utile collaboratore di un operatore professionale? La risposta è nel significato che attribuiamo a prossimità. Parole che può stare in evoluzione.
Essere adulti, ovvero poter fare degli incontri. Anche imprevisti.
Il lavoro ha una prospettiva progettuale, ed è rivolto alla realizzazione di un progetto il più possibile condiviso e partecipato. Per questo, è bene focalizzare l’attenzione su alcuni punti:
Nell’accompagnamento convivono due elementi:
Questi due elementi costituiscono il paradosso dell’accompagnare: essere insieme per separarsi. Introduciamo una citazione che ci aiuta a completare il senso del paradosso: “Le capacità dell’uomo di rielaborare quanto da lui percepito tenendo conto delle esperienze già immagazzinate e di rifletterci sopra sono praticamente inesauribili, malgrado i limiti materiali del suo cervello. Il sistema nervoso centrale è un <sistema aperto> a cui continuamente affluisce informazione, che viene subito filtrata modificata e incorporata secondo criteri gerarchici. L’informazione non è soggetta ad alcuna legge di conservazione. In base ai processi dinamici che si svolgono nel cervello, essa si genera in modo selettivo, irreversibile ed evolutivo. Essa ha il carattere di una Gestalt nel senso coniato dalla psicologia”(M. Eigen, R. Winkler, 1986, p. 271).
La rielaborazione della propria percezione è conquista di autonomia. E il paradosso consiste nel fatto che tale rielaborazione è favorita da un accompagnamento “evolutivo”, ed è impedito da un accompagnamento “ripetitivo”. La distinzione fra questi due tipi di accompagnamento può essere particolarmente problematica in condizioni di scarsa autonomia funzionale. Se una persona ha bisogno costantemente di appoggiarsi a un’altra persona perché diversamente non può muoversi, quella distinzione può sembrare astratta e forse irritante. Però possiamo avere diversi modi di accompagnare. E le differenze non sono vistose e tuttavia sostanziali:
Ci sono molte altre possibili sfumature. Sottolineiamo la necessità di distinguere il piacere di accompagnare dalla sua necessità funzionale. Se vengono confusi, ovvero fusi insieme, il piacere della compagnia e la necessità di essere sorretto, il timore di perdere il primo sarà un potente motivo di resistenza a fare evolvere la seconda. E’ molto difficile vivere un accompagnamento che non riesce a distanziare piacere e funzione (necessità). Senza questa distanziazione, si creano delle funzioni insostituibili. Distanziando, la necessità può essere assunta da chiunque riesca a riprenderne la funzione correttamente; mentre il piacere dell’accompagnamento non può essere assunto da chiunque. Ma questo permette di fare evolvere la condizione di chi ha bisogno di accompagnamento e può ritrovare il piacere dell’accompagnamento attraverso qualche collegamento con telefono cellulare.
M. EIGEN, R. WINKLER (1986; 1985), Il gioco. Le leggi naturali governano il caos, Milano,Adelphi.
Partire dall’esistente…
Il problema della scelta di una logica, vede da un lato un sistema residenziale totale, e dall’altro la costruzione di un “menù personalizzato” che sia capace di capire i bisogni del singolo evitando una risposta totalizzante (per esempio la sola residenza).
E’ importante avere dei punti di riferimento: prendere in considerazione l’ ICF attraverso una logica dei contesti ( al plurale!) in modo da avere differenze di rendimenti. Ragionando per contesti possiamo fare delle prove e scoprire che un individuo può essere bravo in un contesto e molto bravo in un altro.
Questa logica è utile anche al fine di vedere meno discontinuità sia di rendimento che di comportamento ecc. Può essere un indicatore di evoluzione.
Paradossalmente dovremmo fare l’elogio della disobbedienza: vedere qualcosa di inaspettato può essere interessante. Vedere nella discontinuità degli elementi di possibilità.
Ci si può domandare se a 50 anni non c’è più possibilità di evoluzione? gli ausili ci aiutano in questo senso e l’Ausilioteca Regionale Emilia-Romagna fornisce già un utile sistema di ricerca di risposte positive. Segnaliamo:
Strumenti e linee di sviluppo utili per individuare aree tematiche per poter immaginare il futuro di persone con disabilità:
Come muoversi:
- per riflettere sul modo di lavorare è utile soffermarsi sui profili professionali, che sono diversi dai profili di competenza. Anche per scoprire se le persone che lavorano lo fanno in concordanza con le proprie competenze, ma anche per poterle accostare alle aree di cui sopra.
- possibilità di avere strumenti di osservazione organizzati secondo una logica ipertestuale. Le operazioni da svolgere riguardano più livelli (sia superficiali che profondi) e vogliono abbracciare più punti di vista ( sia quelli dei professionisti che dei familiari).
Logica innovativa partendo dall’esistente.
… ma non fermarsi.
Le persone con disabilità non divengono mai adulte? E’ del tutto comprensibile che le famiglie desiderino che il loro congiunto, al di là dell’anagrafe, rimanga all’interno del Servizio Minori: la disabilità si manifesta nell’infanzia, e finché si è in quell’età, i cambiamenti sono possibili. E’ un desiderio che va letto come richiesta di vivere un’evoluzione. Nello stesso tempo, rischia non volendolo, di consolidare un modello assistenziale. Avendo consapevolezza che non esiste una presa in carico consolidata del disabile adulto, è importante lavorare per produrre qualcosa che non è ancora stato fatto.
Poniamo in evidenza la necessità di dare valore e sviluppare l’assistenza domiciliare, dunque anche lo spostamento degli operatori.
L’area dell’artigianato rappresenta un’opportunità non solo per la persona con disabilità, ma anche per l’artigiano. Questi vede messa a rischio la trasmissione dei saperi e la propria vita commerciale a causa dei costi che non riesce ad affrontare. Per questo sarebbe opportuna una tutela sociale. Ciò permetterebbe nello stesso tempo di dare la possibilità ad una persona con disabilità di passare una giornata al fianco di un artigiano, con costi vantaggiosi rispetto alla creazione di nuovi posti alloggio. Quello che si vuole evidenziare riguarda la possibilità di uscire dalla logica della struttura per approdare a nuovi contesti, esterni, in cui avviare attività anche laboratoriali avvalendosi delle competenze di quegli operatori prima citati.
Per quanto riguarda l’area dei beni culturali, si suggerisce ad esempio la possibilità di restaurare da parte di artigiani, edifici industriali abbandonati, per avere in cambio un posto gratuito per il proprio negozio e nello stesso tempo per poter accogliere persone con disabilità.
La verità dei depositi.
Alcune riflessioni di accompagnamento:
Passione per la cucina |
Trasmessa dalla nonna |
Apprendimento dell’arte della cucina |
Attraverso la documentazione |
Attraverso l’osservazione |
Attraverso le spiegazioni orali-pratiche della nonna |
Tutto questo all’interno di un contesto affettivo forte (amore, stima, rispetto) |
Dall’apprendimento del saper cucinare (1°COMPETENZA) derivano una serie di competenze |
Rispetto delle regole (ad es. la farina non si tira addosso perché brucia gli occhi, fa starnutire, ecc., bisogna fare attenzione con i coltelli, a così via. |
Dall’apprendimento del saper cucinare (1°COMPETENZA) derivano una serie di competenze |
Lettura della ricetta o rievocazione nella memoria |
Comprensione del testo (sequenza delle azioni da svolgere) |
Misurazione con bilancia e altri strumenti (concetto di peso, di unita di misura, corrispondenza teorico-pratica) |
Sviluppo sensibilità (odorato, gusto, tatto, vista) |
Esecuzione pratica |
Sviluppo motricità fine e coordinazione |
Rispetto della sequenzialità delle azioni da svolgere |
Possibile sviluppo del linguaggio (es. arricchimento lessicale e verbalizzazione: esplicitando ciò che si deve fare o si sta facendo |
Concetto Temporale (es. tempo di riposo, di lievitazione, di cottura) |
Sviluppo dei concetti di proporzione (quali pentole, terrine, teglie utilizzare, perché utilizzarle proprio di quella misura e forma) |
Evitare i pericoli (es: evitare di bruciarsi o di tagliarsi: interiorizzazione di ciò che si è sentito a parole o dall’esperienza diretta) |
“La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace […]. E’ certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dell’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna,che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese” (P. Levi, 1982, pp. 12-13).
Dire la verità. Cominciando a non dire falsità.
Enzo Pace ha studiato il fenomeno del fondamentalismo religioso contemporaneo. Il titolo del suo studio riprende un’espressione di Foucault: il fondamentalismo pretende di essere un regime della verità. E come lo pretende? La verità è un’esperienza diretta del sacro. L’esperienza diretta è fondante. Inoltre, il fondamentalismo si basa sulla convinzione di essere al centro di una minaccia e di un pericolo collettivi. La paura è direttamente proporzionale al bisogno di riporre ogni salvezza in una fede, in luoghi di fede, in un gruppo iniziato alla stessa fede. Esperienza diretta fondante la verità e sindrome da accerchiamento: ecco i tratti più caratteristici del fondamentalismo. Il regime della verità è anche il regime della paura.
“L’analisi delle realtà quotidiane che costituiscono l’esperienza […] è divenuta gradualmente possibile solo perché l’uomo è divenuto via via capace di meravigliarsi dei fenomeni più consueti, il che presuppone da parte sua la capacità di immaginare le cose diversa da quello che sono, cioè di costruirsi un mondo ideale col quale siano confrontati i dati dell’esperienza. Davanti al fatto banale di un frutto che cade, bisognava essere Newton per cercare di spiegarselo con le leggi di gravitazione “ (H. Wallon,1967, p. 197)
La teoria della mente.
La possibilità di spiegare e a prevedere le proprie azioni e quelle degli altri agenti intelligenti, avendo una mente che osserva l’altra e può pensare: “forse io penso che …” oppure “forse lui/lei pensa che …”
L’originalità di una situazione (verità) e la sua collocazione nella banalità della categoria. Ad esempio: il racconto originale di reduci sopravissuti ai campi della morte e la collocazione nei racconti di guerra …
“Ricordo così un uomo che minacciava di gettarsi insieme a suo figlio dalla Torre Eifel. Polizia, psichiatrie pompieri vennero mobilitati. Ma lo spiegamento di forze non fece che accrescere le minacce proferite dall’uomo. Arrivò una giovane esterna degli Ospedali di Parigi. Con aria stordita gli disse: <Attenzione alle correnti d’aria, il bambino prenderà freddo>. La crisi dell’uomo cedette di colpo. Non fece alcuna opposizione e discese i gradini con la massima calma. Il fatto è che la parola veniva da un luogo diverso dall’immaginario persecutorio dell’uomo ridotto allo stremo e, in un certo modo lo risvegliava dal suo delirio” (M. Mannoni, 1993, p. 53).
“Riflettiamo: in quanto apparato sensoriale, la pelle è il più importante sistema organico del corpo. Un essere umano può trascorrere la vita cieco e sordo o completamente privo dei sensi dell’olfatto e del gusto, ma non può sopravvivere senza le funzioni proprie della pelle. L’esperienza di Helen Keller, che era diventata cieca e sorda nell’infanzia, la cui mente fu letteralmente creata attraverso la stimolazione cutanea, ci mostra che, quando mancano altri sensi, la pelle può compensare in grado elevato la loro mancanza […]” (A. Montagu, 1975, p. 13).
“Il cammino inaugurato da Abrahamo ha avuto significativi epigoni fra i quali il filosofo Emil Cioran a cui dobbiamo questo gioiello aforistico: < Un uomo che si rispetti non ha una patria. Una patria è una colla>. Ma già nell’undicesimo secolo Ugo da San Vittore aveva scritto con penetrante grazia: <L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero>” (M. Ovadia, 2002, p. 35).
“La tua menzogna può essere utile ai tuoi (perversi e sbagliati) piani solo perché tu presumi che tutti accettino la norma della verità, non della menzogna. Per essere menzognero tu devi volere la verità degli altri, mentre tu ti esenti dal perseguirla. Quindi, di nuovo, ti poni nella posizione dispotica di volere che tutti, eccetto te, sottostiano alla regola della verità.
La menzogna non può essere condizione di dialogo dunque, perché non può essere condizione né di giustizia né di umana convivenza” (N. Urbinati, 2002).
“Una verità che io immagino come assoluta, togliendole quindi ogni relazionalità – che è l’essenza della verità – per definizione non è verità, nemmeno quella che viene presentata come divina. Quindi smascherare questa piaga dell’umanità è un progresso, che è necessario operare in questo momento storico. Dove il contrario non è l’indifferenza, non è affermare che la verità non esiste. La verità esiste, ma è relativa: a noi, ad una mente, a qualsiasi cosa. […] La relatività non è relativismo: la verità è relativa. Ma per superare il relativismo non si deve cadere nell’assolutismo. Il rimedio sarebbe peggio della malattia. Il relativismo non va bene, ma la relatività implica di non perdere la misura umana. Non si progetta su un punto omega infinito. […] abbiamo necessità di comprendere che la verità, forse, quando cade dal cielo sulla terra si rompe in cento pezzi, un pezzetto a disposizione di ciascuno” (R. Panikkar (2007).
Note bibliografiche:
P. LEVI (1982), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.
E. PACE (1990), Il regime della verità, Bologna, Il mulino.
H. WALLON (1967; 1963), Il reale e il mentale, Firenze,
M. MANNONI (1993; 1988), Cosa manca alla verità per essere detta, Roma, Borla.
A. MONTAGU (1975; 1971), Il tatto, Milano, Garzanti.
M. OVADIA (2002), Vai a te stesso,Torino, Einaudi.
N. URBINATI (sett. ott. 2002), La bugia, Forlì, in “Una città”.
R. PANIKKAR (9.10. 2007), Il tempo del perdono e la logica del perdono, in “
In un’altra logica incontriamo il termine empowerment, come possibilità di incrementare le capacità di auto-organizzazione dell’individuo. Riferendosi alla sua individualità originale e non seriale.
Bertolt Brecht scrisse, nel 1930, L’eccezione e la regola, che definì rappresentazione didattica. E’ un apologo che racconta “la storia di un viaggio compiuto da uno sfruttatore – il mercante - e due sfruttati” - un portatore e una guida. Il Mercante uccide il Portatore che gli offriva da bere porgendogli una borraccia. Come poteva il Mercante immaginare, nel contro sole, che il Portatore non volesse ucciderlo con una pietra, e volesse invece offrirgli da bere? Era un Portatore “eccezione”. Il Mercante viene assolto dal giudice perché si è comportato secondo la regola (seriale). Il Giudice canta: “La regola è: occhio per occhio! / Il folle si aspetta l’eccezione. / Che il suo nemico gli offra da bere / non può aspettarsi l’uomo saggio”. Poco prima, il Mercante aveva detto: “Bisogna basarsi sulla regola, non sull’eccezione”.
L’ empowerment è la possibilità di incrementare le capacità di auto-organizzazione dell’individuo. Alimenta la responsabilità sociale.
Partiamo da ciò che diceva Nadine Gordimer (1923-2014): la solitudine è vivere senza responsabilità sociali. Parliamo di prossimità perché il prossimo può essere uno sconosciuto, uno che arriva da lontano, uno che raggiungiamo facendo un lungo percorso. Il prossimo non è detto che sia legato al campanile. Potrebbe essere legato al minareto. Le responsabilità sociali non selezionano. Sarebbe insensato, per tante ragioni. La più evidente riguarda il fatto che respiriamo la stessa aria e stiamo sotto lo stesso cielo: se uno qualsiasi inquina, tutti ne pagano le conseguenze.
Parliamo di welfare di prossimità perché il welfare istituzionale, basato su standard predefiniti, attualmente non funziona. Non è questione della crisi. E’ questione di un modello obsoleto. Basato su bisogni codificati e categorizzati, per rendere standardizzate e controllabili le risposte. Controllabili nel senso che non devono fornire sorprese. Tutto deve stare in caselle, in parametri, predefiniti. Il prossimo, il welfare di prossimità vuol dire l’inatteso. Che, attraverso mediatori umani o materiali, va messo nella rete. Se il welfare istituzionale non funziona, perché dovrebbe funzionare il welfare di prossimità?
Dobbiamo costruirlo affrontando diversi problemi. Vediamoli.
Occorre lavorare per fornire degli indicatori che permettano di evidenziare l’apporto che ciascuno fornisce o potrebbe fornire se … al bene comune. E occorre fornire una idea-quadro del bene comune stesso.
La parola stessa politica ha bisogno di essere ricompresa. Non riguarda i “politici”! Riguarda i cittadini, cioè tutti. Ma in questa comprensione ci si trova ad affrontare il virus che ha invaso la politica: la corruzione. Non possiamo cavarcela con la dichiarazione che i politici sono tutti corrotti. La corruzione è come l’inquinamento dell’aria. La respiriamo tutti.
Le organizzazioni come ad esempio le cooperative sociali non possono ritenersi esentate dalla buona amministrazione in nome della solidarietà. Devono saper gestire, avendo la lungimiranza che permette di capire che l’uscita dalla crisi, quando avverrà, non riporterà a poter contare su sussidi e assistenze. Non dovrebbero neanche più accettarlo.
La compagnia dell’imperfetto esige mediatori, umani e materiali, per formare continuamente una rete, da percorrere, da rattoppare quando si strappa, da rinforzare sapendo “fare nodo”, sapendo scomparire nell’intreccio, e riapparire per proseguire.
“Il problema è che per fare l’educatore devi inventare sempre nuovi appuntamenti, nuove attese … ma se non hai un progetto, anche un progettino piccolo, è un guaio …” (Sergio Neri).
Stanislas Dehaene, Jean-Pierre Changeux, Lionel Naccache e altri, cercano di rispondere ad alcune domande:
La teoria dello Spazio di Lavoro neuronale Globale” tenta di rispondere a queste domande.
L’ipotesi di partenza è semplice: la coscienza non è altro che la condivisione globale di un’informazione. Il cervello umano ha delle reti di connessione a lunga distanza, in particolare nella corteccia prefrontale, il cui ruolo è di selezionare le informazioni più pertinenti e diffonderle all’insieme del cervello.
La teoria dello Spazio di Lavoro Globale, proposta da Bernard Baars, vuole fornire un modello di coscienza.
Bernard Baars (1946 - vivente), neuroscienziato, insegna attualmente al Wright Institute, a Berkeley, in California. E' co-editore della rivista Consciousness and Cognition.
Nella sua opera più nota, A Cognitive Theory of Counsciousness (1988), Baars propone una teoria della coscienza che chiama teoria dello spazio d'azione. Tale teoria è stata ripresa e sviluppata in un'opera successiva, In the Theater of Counsciousness: the Workspace of Mind (1977). La tesi centrale del neuroscienziato americano è che il cervello sia organizzato in maniera funzionale intorno a uno spazio d'azione globale, dove possono essere elaborati solo pochi elementi alla volta. Si tratta di un'idea che ha molti punti in comune alla concezione del Teatro Cartesiano di Dennett: i pochissimi elementi presenti a un dato istante nella coscienza corrispondono a quelli posti al centro del palcoscenico. Baars immagina dunque la coscienza come una scena illuminata da un riflettore il cui fascio di luce permette di vedere solo parte di ciò che avviene sul palco. Ciò che rende cosciente un evento è dunque la sua elaborazione all'interno dello spazio d'azione globale e la sua trasmissione val resto del sistema. Il punto forte di questa teoria è che essa stabilisce con chiarezza quali cose dovrebbero essere coscienti, ossia quali occupano lo spazio d'azione diventando globalmente disponibili.
Daniel Clement Dennett è nato a Boston nel 1942. Nel 1987 è stato nominato socio dell'American Academy of Arts and Sciences. Dal 2000 è professore di filosofia presso la Tufts University.
Dennett ha affrontato il tema della coscienza, muovendosi in una prospettiva funzionalistica.
Dennett non nega l'utilità di attingere dati dalla soggettività individuale, ma nello stesso tempo ci invita a considerare con sospetto questi dati. L'evidenza con cui essi si presentano a un determinato soggetto non costituisce affatto una garanzia circa la loro veridicità. Dennett critica la tendenza diffusa tra i ricercatori a pensare che i sistemi percettivi forniscano "segnali in ingresso" a una qualche area centrale del cervello, la quale, a sua volta, utilizzi tali segnali per impartire comandi relativamente periferici che controllano i movimenti del corpo. Questo modello presuppone l'esistenza di un centro nel cervello verso il quale tutti i segnali convergono dando luogo al fenomeno della coscienza. Dennett chiama questa concezione Modello del Teatro Cartesiano. Essa afferma l'esistenza di un ordine, di una linea d'arrivo in una parte definita del cervello, a seconda della quale l'ordine d'arrivo in quel punto corrisponde all'ordine con cui le esperienze "si presentano" al soggetto, poiché ciò che accade lì è precisamente ciò di cui diveniamo coscienti.
Il fatto è che noi non abbiamo esperienza diretta di quanto avviene sulla nostra retina, nelle nostre orecchie, sulla superficie della nostra pelle. Nella nostra effettiva esperienza rientra soltanto il prodotto finito di questi diversi processi di interpretazione. Dennett riporta alcune situazioni sperimentali che mostrano come possiamo essere ingannati da ciò che appare. Ad esempio, dati due fenomeni collegati tra loro in rapida successione, in certi casi accade che nel nostro vissuto soggettivo il secondo influenzi il primo ancor prima di essersi verificato. Fenomeni del genere, osserva Dennett, sono piuttosto difficili da spiegare per mezzo della concezione che collega i contenuti di coscienza con l'arrivo di segnali in un determinato punto. Infatti, l'unica spiegazione razionalmente accettabile è che la percezione dei due eventi sia il risultato di una rielaborazione successiva. Le due esperienze distinte non fanno a tempo ad essere colte dalla coscienza come tali o, se ciò accade, esse vengono subito "spazzate via dalla memoria e sostituite da un documento falsificato" che ci presenta l'influenza del secondo evento sul primo come qualcosa di operante sin dall'inizio.
Alla luce di questi indizi sperimentali, Dennett giunge a concludere che non esiste un luogo centrale, un Teatro Cartesiano dove "tutto converge" per essere esaminato da un osservatore privilegiato. La coscienza non sarebbe quindi una questione d'arrivo a un determinato luogo cerebrale, quanto piuttosto di attivazione che supera una certa soglia sull'intera corteccia o su larga parte di essa. Al posto della concezione del Teatro Cartesiano, in cui opera un flusso lineare di processi che si succedono in maniera ordinata e sequenziale, Dennett propone quella delle Molteplici Versioni, costituita da un certo numero di circuiti in stretta interconnessione tra loro, che operano in parallelo. Secondo tale concezione, l'unità dell'esperienza cosciente non viene ottenuta riconducendo l'attività dei diversi moduli in cui può essere idealmente suddivisa la corteccia cerebrale a un centro finale, che agisce da "collettore", bensì deriva dal loro funzionamento strettamente integrato e interdipendente. Se il Sé - sostiene Dennett - è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se tutti i fenomeni della coscienza umana rappresentano soltanto i prodotti dell'attività di una macchina virtuale realizzata con connessioni variamente modificabili del cervello umano, allora, in linea di principio, un robot opportunamente "programmato" con un cervello costituito da un calcolatore al silicio, sarebbe cosciente, avrebbe un sé. Cfr. D. DENNET (1993; 1991), Coscienza. Che cos'è, Milano, Rizzoli.
La coscienza è un dispositivo evoluto che ci permette di mantenere l’informazione in linea. Una volta diventata cosciente, un’informazione può essere inviata qualsiasi altra regione del cervello, in funzione dei nostri obiettivi. E quindi può essere nominata, valutata, memorizzata, incorporata nei nostri piani di azione. Cfr. S. DEHAENE (2009), Le Cȏde de la conscience, Paris, Odile Jacob, p. 223. La teoria dello spazio di lavoro neuronale globale tiene conto di molte osservazioni sulla coscienza e i suoi fondamenti cerebrali. Spiega perché prendiamo coscienza solo di una piccolissima parte delle conoscenze immagazzinate. Prima di diventare cosciente, un’informazione deve essere codificata da un gran numero di neuroni attivi. Cfr. S. DEHAENE, Op. cit., p. 271.
La coscienza ha una funzione adattiva nei confronti dell’ambiente.
L’autonomia è il primo compito del sistema nervoso. L’attività neuronale intrinseca comanda e domina sull’eccitazione esterna. Il nostro cervello non si abbandona mai passivamente all’ambiente, ma genera continuamente le proprie configurazioni di attività. Nel corso della crescita, le configurazioni utili sono conservate, mentre le altre scompaiono con l’apprendimento. Cfr. S. DEHAENE, Op. cit., p. 259.
Dobbiamo considerare che il nostro cervello non è una tabula rasa in cui si accumulano delle costruzioni culturali. E’ un organo fortemente strutturato che realizza il nuovo utilizzando il vecchio. Per apprendere nuove competenze, ricicliamo i nostri vecchi circuiti cerebrali di primati, nella misura in cui questi tollerano un minimo di cambiamenti. Cfr. S. DEHAENE (2007), Les neurones de la lecture, Paris, Odile Jacob.
Le reti sociali, indispensabili, possono essere esclusivamente virtuali? Il rischio della de contestualizzazione, dovuta a dati e informazioni che si elidono fra loro – come avviene con le telefonate con il cellulare, in cui le mimiche, pur importanti a volte, sono invisibili per l’interlocutore -.
Un’esperienza che procede in maniera fortemente ripetitiva, rischia di perdere capacità di informazione (assenza di salienza). Diventa ridondante e viene esclusa dalla coscienza. L’attenzione all’ambiente, con le continue variazioni – climatiche, dei flussi di popolazioni, meteorologiche, eccetera – può evitare questo blocco. E può permettere una maggiore attenzione alla salienza anche minima. Si possono così prevenire danni.