Andrea Canevaro-CENTRO STUDI PEDAGOGIA DELLA MEDIAZIONE

Andrea Canevaro



In difesa dell'inclusione scolastica


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(Intervista ad Andrea Canevaro a cura di Vito Bardascino*)  
 
«La necessità di dedicare una maggiore attenzione al tema della difesa dell'inclusione scolastica degli alunni con disabilità nasce dallo stato di emergenza in cui ormai la scuola italiana si è venuta a trovare. 
La nostra percezione di addetti ai lavori, infatti, è quella di una volontà politica di smantellamento di un'eccellenza unica al mondo della scuola italiana e cioè proprio l'inclusione scolastica dei ragazzi con disabilità». 
È da queste premesse che Vito Bardascino, responsabile dell'Area Integrazione del Progetto "Scuole Aperte" (Assessorato all'Istruzione, alla Formazione e al Lavoro della Regione Campania), ha deciso di avviare una serie di interviste che nascono e proseguiranno con l'obiettivo dichiarato di «difendere l'inclusione scolastica», partendo da quella ad Andrea Canevaro, da anni una delle figure più autorevoli del settore. 
 
Il livello di emergenza cui siamo arrivati, in riferimento all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, richiede un intervento straordinario a difesa di quei diritti che hanno permesso a migliaia di ragazzi di costruirsi un futuro qualitativamente migliore. Gli sforzi che quotidianamente, tutti insieme, operatori del mondo della scuola, famiglie e associazioni di volontariato spendono per una scuola di qualità, sono puntualmente cancellati dalle scelte di un Governo che considera la persona solo e unicamente come un "costo passivo" e non come portatore di diritti, questo anche in riferimento alla sanità e alle politiche sociali, oltre che alla scuola.
Per tali motivi, riteniamo fondamentale rinnovare i nostri sforzi a difesa della scuola pubblica, ove per pubblica intendiamo una scuola per tutti e abbiamo pensato di iniziare proprio dall’analisi dello stato attuale dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, attraverso una serie di interviste a chi da sempre si occupa di questo tema. Non vogliamo però fermarci solo all’analisi, ma se possibile anche presentare delle proposte con un approccio pedagogico alternativo alle scelte politiche scolastiche dei "tagli e delle economie presunte". Chiaramente non potevamo non iniziare dal professor Andrea Canevaro. (Vito Bardascino, responsabile Area Integrazione del Progetto 
Scuole Aperte - Assessorato all'Istruzione, alla Formazione e al Lavoro della Regione Campania)

L'8 ottobre 2008 tutte le agenzie stampa e i siti web che si interessano di disabilità pubblicavano la lettera di dimissioni di Andrea Canevaro e Dario Ianes dall'Osservatorio Ministeriale sull'Integrazione Scolastica [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]. Il 17 novembre 2009, poi, nella mozione finale del Settimo Convegno Internazionale di Rimini sulla Qualità dell'integrazione scolastica della Erickson, dal titolo Una vita non si boccia. Mai, veniva dichiarato: «Altrettanto denunciamo i rischi di deriva sociale che viviamo ogni giorno e che temiamo portino oggi a un punto di non ritorno, a seguire un appello... Anche a voi diciamo chiaro e tondo basta, rivolto ai Signori politici, amministratori, responsabili istituzionali!... sindacalisti!... delle chiese e del terzo settore!... dell'economia e della produzione!... cittadini qualsiasi della nostra Italia!» [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]. Le chiedo quindi, professor Canevaro, a distanza di alcuni mesi da quel Convegno di Rimini e a pochi giorni dal Convegno L'integrazione delle persone con disabilità. Lo sguardo della pedagogia speciale (Milano, 25-26 febbraio 2010), si è registrata un'inversione di tendenza oppure no?
«Direi proprio di no. Si è perfezionato il dispositivo che permette - o consente - di affermare princìpi costituzionali con solennità e nelle pratiche quotidiane disattenderli. Inoltre si sta verificando qualcosa che rende ingovernabile il sistema educativo. Vengono annunciati con clamore provvedimenti chiaramente non applicabili, come quello delle quote di alunni di altre culture (immigrati). Il clamore del provvedimento è quello che si vuole. La confusione che genera non interessa chi l’ha proclamato. È la logica dello spot, che permette di superare con la massima disinvoltura l’impaccio della coerenza di un disegno, permettendo di affascinare in un istante con un’affermazione e nell’istante dopo con il suo contrario.
In questo momento l’Italia sta disattendendo in maniera sfacciata la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dalla Legge dello Stato 18/09».

E quindi ciò vuol significare che in Italia stiamo correndo realmente il rischio di azzeramento del processo trentennale dell'inclusione scolastica degli alunni con disabilità...
«Non è per fortuna semplice disfare in un attimo alcuni decenni di storia, che è anche storia del diritto e dei diritti. Vi sono resistenze molteplici e anche efficaci. E il vero nemico è il malgoverno mascherato da efficientismo. L’aumento degli effettivi per classe è in contrasto con le norme di sicurezza. È uno dei tanti esempi di incapacità di governare, nascondendo tale incapacità dietro la maschera dell’efficientismo e del fare».

Il logo del Progetto «Scuole Aperte» della Regione Campania
Il logo del Progetto «Scuole Aperte» della Regione Campania
Ma le responsabilità a chi sono da addebitare? Alla scarsa o quasi nulla attenzione dell'attuale classe politica governativa, alla qualità dell'inclusione degli alunni con disabilità con bisogni educativi speciali oppure le responsabilità di questa deriva sono da ricercare anche altrove?
«Le responsabilità sono innanzitutto di chi in questo momento governa. E anche di chi dimentica o non vuole conoscere il percorso che è stato fatto. La responsabilità viene evitata con l’ignoranza colpevole, che è perdita di memoria. In certi momenti essere responsabili vuol dire saper trasgredire. Chi cresce ha quasi il bisogno di "trasgredire". Edelman [Gerald Maurice Edelman, biologo, Premio Nobel per la Medicina, N.d.R.] sostiene che l’evoluzione dell’intelligenza umana è passata attraverso la possibilità e la capacità di trasgredire, ovvero di non conseguire una routine troppo stretta e tale da diventare "un destino senza sorprese". A maggior ragione chi vive con una disabilità deve liberarsi dal "destino segnato". E questo è diventato un impegno proclamato in tante sedi, ma non sempre seguito da pratiche coerenti.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità riguarda 650 milioni di individui nel mondo. È un mondo in cui la mobilità delle popolazioni è in continuo aumento; in cui la media della durata della vita, in Paesi come il nostro, è aumentata (invecchiamento della popolazione); in cui si calcola che, in media, un individuo che viva 70 anni avrebbe 7 anni - anche cumulativi - di condizione di disabilità. La disabilità, come emerge dalla Convenzione, è un concetto in evoluzione. L’articolo 1, ad esempio, ribadisce che la disabilità è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche delle persone e le barriere attitudinali e ambientali che esse incontrano. È inscindibile dalla qualità della vita; che può dipendere da una rete sociale attiva, dall’accessibilità dell’informazione, dall’esigibilità dei diritti (non per un procedimento giudiziario apposito, ma già presenti, in una società inclusiva) e da una buona accessibilità di prodotti di mercato facilitanti, oltre che dalla complementarietà con i servizi sociosanitari con competenze specifiche.
Queste annotazioni dovrebbero indurre a pensare che un buon accompagnamento verso il progetto di vita (la vita indipendente) di persone con bisogni speciali può averericadute fondamentali anche per chi si ritiene con bisogni normali. Chi è attento alle risorse economiche dovrebbe sapere che in questo caso la spesa può essere un buon investimento».

La copertina di uno dei tanti libri curati da Andrea Canevaro, quest'ultimo nel 2007, in occasione del trentennale dall'avvio del processo di integrazione scolastica in Italia
La copertina di uno dei tanti libri curati da Andrea Canevaro, quest'ultimo nel 2007, in occasione del trentennale dall'avvio del processo di integrazione scolastica in Italia
Cosa potremo quindi chiedere al Ministero dell'Istruzione? Quali le proposte da sottoporre ai funzionari ministeriali per garantire una migliore qualità dell'inclusione scolastica?
«Non chiedo a chi ha dimostrato di non voler sapere. Mi dispiace dirlo, ma l’unica cosa che vorrei chiedere è di farsi da parte».

E agli operatori del mondo della scuola cosa possiamo chiedere?
«Di continuare a vivere una passione con professionalità».

E alle famiglie?
«Di avere la pazienza, la tenacia, di trovare alleati negli operatori».

Uno degli interventi (unico in Italia) svolto dallo Sportello Integrazione di Scuole Aperte dell'Assessorato all'Istruzione della Regione Campania, è stato il monitoraggio sul sovraffollamento delle classi in presenza di alunni con disabilità. I dati inviatici dalle scuole sono a dir poco drammatici. Come possiamo definire l'offerta formativa delle scuole in queste situazioni e cosa possono fare le scuole stesse per evitare tutto ciò?
«È, palesemente, un’offerta illegale indotta dal Ministro».

Lei ha dichiarato che oggi uno dei rischi che corriamo è quello «di vivere nelle nostre scuole una falsa integrazione o peggio ancora un'integrazione a pagamento». Come si potrebbe, secondo lei, evitare tutto ciò e strutturare invece una scuola inclusiva, di effettiva qualità, basata sulla valorizzazione della diversità?
«Cercherei di avere più attenzioni per i profili professionali. Le necessità organizzative dei servizi sono indiscutibili. Misurare i bisogni e quantificare le risposte è necessario. È chiaro che non si possono non fare i conti. Ma la logica organizzativa può rispondere in maniera equa alle esigenze delle risorse economiche (con limiti) e alle esigenze dei soggetti? Si possono tenere in equilibrio le necessità che portano a oggettivare i bisogni e quelle che portano a identificarsi con chi vive i bisogni?
Potremmo cercare di semplificare il problema utilizzando strumenti di rilevazione dei bisogni e affidandone l’impiego a chi vive la quotidianità accanto ai soggetti con bisogni speciali. Questo è un modo di arrivare a una soluzione equilibrata, ma non mette al riparo da rischi. I rischi maggiori, come già accennato, sono di due ordini: da una partel'oggettivazione del bisogno di un individuo, che non è più "il signor Filippo", ma "un'appendicite"; dall'altra parte l'identificazione con l'altro, con il "signor Filippo". Nel primo ordine di rischi troviamo la categorizzazione e la sua ossessione. Una larga maggioranza di studiosi e di operatori sottoscrive con facilità la dichiarazione circa la relativa irrealtà delle distinzioni in categorie. All’interno della categoria "ritardo mentale", ad esempio, vi sono tali e tante variabili e differenze individuali, da rendere scarsamente significativa la categoria stessa. Ma anche la categoria "sindrome di Down" può dar luogo alle stesse considerazioni.
Si potrebbe dunque concludere che le categorie sono dannose e inutili? Sarebbe una semplificazione frettolosa e sbagliata. È vero, però, che vi sono usi delle categorie che sono frettolosi e sbagliati: è sbagliato l’uso delle categorie per determinare una lettura dei bisogni - che risulterebbe anche frettolosa e per questo probabilmente apprezzata da chi ritiene che gli accertamenti dei bisogni siano "costi passivi"; è sbagliato l’uso delle categorie per decidere risposte adeguate. Se queste infatti sono tarate su finte omogeneità, non potranno essere adeguate e costituiranno un sistema violento; e ancora, è sbagliato l’uso delle categorie per stabilire le professionalità da impegnare.
Ragazzo con disabilità insieme a compagno di scuola
Le categorie sono utili invece per aprire delle differenze che si trovano sotto la stessa dizione. Si pensi ad esempio a "diagnosi di spettro autistico" e alla straordinaria varietà di caratteristiche che contiene questa indicazione. Sono poi utili per stabilire reti informative che permettano il miglioramento della qualità della vita dei soggetti con bisogni speciali. Questo è tanto più importante per le sindromi rare, che non possono creare competenze sulla base dell’esperienza del singolo operatore. Paradossalmente, infine, le categorie sono utili per essere messe in discussione. Scoprire l’inadeguatezza di un sistema di classificazione è l’inevitabile premessa della rimozione degli ostacoli per la nostra comprensione. Nello stesso tempo è il modo per ricordarci che le nostre possibilità di comprensione sono relative al tempo storico che viviamo.
Importante è quindi:
- considerare l’accertamento dei bisogni come tempo costruttivo e quindi le spese che lo sostengono come investimento;
- attribuire le necessità organizzative dei servizi (misurare i bisogni e quantificare le risposte) agli stessi Educatori Sociali, prevedendo uno sviluppo di carriera di questa figura professionale che solitamente - se occupa un ruolo dirigenziale - lo fa cambiando la propria identità professionale e sforzandosi di identificarsi con professioni manageriali;
- evitare di creare gerarchie di servizi su presunte classifiche di maggiore o minore gravità delle condizioni e per questo avere modelli di riferimento per le risposte ai bisogni rilevati sul tipo della proposta di Booth e Ainscow [T. Booth e M. Ainscow, L'Index per l'inclusione. Promuovere l'apprendimento e la partecipazione nella scuola, Spini di Gardolo, Trento, Erickson, 2008, N.d.R.] che hanno elaborato un’analisi partecipata e di automiglioramento dell’inclusione (scolastica) di chi presenta bisogni speciali.
Ianes [D. Ianes, Bisogni Educativi Speciali e inclusione, Spini di Gardolo, Trento, Erickson, 2005, N.d.R.] ha illustrato come sia nato il concetto di Bisogno Educativo Specialee come lo si possa fondare sull'ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità prodotta nel 2001 daall'Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]. È il segno di una prospettiva che vuole superare il parametro biomedico, andando oltre le categorie di disabilità e occupandosi di tanti che vivono diverse difficoltà.
L’Index di Booth e Ainscow "è una risorsa di sostegno allo sviluppo inclusivo" e può costituire un ottimo modello di riferimento per un lavoro analogo prodotto da Educatori Sociali. L’attuale lettura dei bisogni, invece, attribuita secondo una logica di divisione del lavoro, impone un modello inadeguato il cui costo risulta inevitabilmente poco produttivo.
Per quanto poi riguarda i rischi derivati dall’altro ordine di problemi (l’identificazione con l'altro), essi sono speculari a quelli già esposti riguardo all’oggettivazione del bisogno di un individuo. In particolare:
- può accadere che chi è Educatore Sociale ritenga che le necessità organizzative dei servizi (misurare i bisogni e quantificare le risposte) siano - come tutte le incombenze amministrative - attività che esulano dal proprio impegno. La conseguenza va nel rinforzo di quella divisione del lavoro che è all’origine dell’inadeguatezza del sistema;
- l'identificazione con l'altro come compito esclusivo di un Educatore Sociale logora (burn out);
- l'identificazione con l'altro può isolare e impedire di "leggere" i bisogni includendoli in una "lettura" sociale che permetta di mettere davvero in crisi la "categorizzazione" cui storicamente ci si riferisce. Le risposte individualizzate a bisogni individuali possono non essere per "categorie" e non essere individuali (isolate), ma intrecciare diversi individui in un'eterogeneità compatibile. Il bisogno di avere un’abitazione, ad esempio, non riguarda una categoria ("ritardo mentale"), ma individui non "categorizzabili". Se la risposta è tale da esigere una certa prossimalità, la stessa risposta deve tener conto della compatibilità (eterogeneità compatibile)».

Qual è il suo parere sulla riforma in corso per la formazione iniziale e sull'obbligatorietà di tutto il personale della scuola?
«Non si può parlare di riforma. È un cambiamento imposto dalla contabilità ottusa, che non sa fare investimenti».

Scuole Aperte è alla sua quarta edizione e in questi quattro anni ha modificato la modalità di fare scuola della maggior parte degli istituti nella Regione Campania. Anche quest'anno, ad esempio (2009-2010), 12 milioni e 500.000 euro sono stati investiti per le 478 scuole che a loro volta hanno coinvolto 1.506 partners per garantire l'apertura e la fruibilità a tutti, nessuno escluso, alle attività laboratoriali programmate dalle stesse scuole in orario extracurricolare. Anno dopo anno è aumentato l'impegno delle scuole per favorire la partecipazione dei ragazzi con disabilità, con il risultato che negli anni scolastici 2007-2009, circa 800 ragazzi e adulti con disabilità hanno frequentato le varie attività di Scuole Aperte (si pensi al Premio Europeo Handinnov 2008, ricevuto a Parigi [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]). Inoltre, nell'ultimo bando, è stato chiesto esplicitamente che le attività extracurricolari, dove possibile, vengano svolte in coerenza con gli obiettivi previsti dal Piano Educativo Individulizzato (PEI) e con riferimento ai criteri stabiliti dalla Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità. Alla luce di quanto già svolto, le chiedo: quale potrebbe essere il ruolo della pedagogia speciale nelle attività laboratoriali di Scuole Aperte, per migliorare e favorire il processo inclusivo e formativo dei ragazzi con disabilità per la definizione del progetto di vita?
Bimbo in carrozzina fotografto di spalle mentre entra a scuola
«Occorre ripensare l’autonomia. E occorre partire dalla necessità di sfuggire al rapporto diadico [ovvero quando aspetti del proprio Sé vengono incarnati e mantenuti dall'altro, N.d.R.]. Che non vogliamo demonizzare. Esso è presente nella vita dell’essere umano in alcune fasi dell’esistenza. Sostanzialmente alla nascita, nella vita di coppia, nei tempi di malattia (ma non necessariamente) e nell’età avanzata (ma non necessariamente). A noi interessa capire quando esso ha un carattere evolutivo e quando invece condiziona staticamente una situazione.
Sono stati individuati diversi stili del cosiddetto coping diadico (Guy Bodenmann, 2005). Il coping diadico supportivo strumentale, che consiste nel tentativo di un partner di aiutare l’altro a riformulare il problema o a guardare la situazione da un’altra prospettiva; il coping diadico supportivo emotivo, che si manifesta mostrando vicinanza emotiva o comprensione empatica al partner; il coping diadico negativo, che comprende comportamenti ostili, ambivalenti o superficiali che accompagnano il supporto: ovvero il partner che dovrebbe fornire supporto lo fa in modo negativo, in quanto l’aiuto al partner è squalificato da critiche (spesso a livello preverbale e non verbale) (R. Iafrate, A. Bertoni, D. Barni, S. Donato, 2009).
Il rapporto diadico ha una dinamica positiva se è evolutivo, aprendosi all’impiego di mediatori e quindi al rapporto triadico, che potremmo anche chiamare rapporto plurale. A volte si ritiene che le persone con una disabilità abbiano bisogno di vivere continuamente nel rapporto diadico. E a volte è così. Ma anche questo aspetto non ha un valore assoluto e potrebbe essere utile capire come sono cambiate le condizioni di crescita e di vita ad esempio di chi è cieco. Dobbiamo considerare infatti che il nostro cervello non è una "tabula rasa" in cui si accumulano delle costruzioni culturali. È un organo fortemente strutturato che realizza il nuovo utilizzando il vecchio. Per apprendere nuove competenze, ricicliamo i nostri vecchi circuiti cerebrali di primati, nella misura in cui questi tollerano un minimo di cambiamenti.
Il rapporto diadico propone, o vorrebbe proporre, la garanzia di una stabilità senza cambiamenti. Ma conviene? Certamente è necessario in alcune fasi della vita. Chi cresce essendo cieco, deve avere un periodo di sicuro riferimento in un rapporto diadico. Ma se questo si prolunga eccessivamente, evitando cambiamenti, può danneggiare il processo di crescita».

Nel ringraziarla per la sua disponibilità, chiuderei questa intervista con la pubblicazione - se me lo permette - di una frase di Sergio Neri che le ho sentito pronunciare per la prima volta al Convegno del 2003 di Rimini, e che non ho mai più dimenticato, con la quale lei ha chiuso il suo intervento in plenaria nell'ultima edizione del 2009: «Il problema è che per fare l'educatore devi inventare sempre nuovi appuntamenti, nuove attese… ma se non hai un progetto, anche un progettino piccolo, è un guaio…» (Sergio Neri).
 
 
(intervista ad Andrea Canevaro  cura di Vito Bardascino)
 

 
Sostegno evolutivo - Welfare di prossimità
 

La sfida è quella della crescita. In un percorso di verità.

Nell’anno scolastico 2014/2015 – ci ricorda la FISH – gli studenti in Italia sono 7 milioni 900 mila con 728.325 insegnanti. Gli insegnanti di sostegno sono 101.000 circa per una popolazione di studenti con disabilità di circa 207.000. l’organico di sostegno è quindi in un rapporto 1 a 2. Il rapporto tra docenti di sostegno e docenti curricolari è di 1 a 7.

La FISH ha sostenuto la necessità di creare una classe di concorso, e quindi una specifica formazione,e una specifica graduatoria,per gli insegnanti di sostegno. Per uscire dalla considerazione di  essere insegnanti di serie B. E sempre la FISH ha invocato l’utilizzo di specifiche figure assistenziali, proprio per evitare che vengano affidati compiti impropri agli insegnanti di sostegno.

L’argomento è tale da suscitare dibattiti piuttosto accesi. Può accadere che il tentativo di rivedere il “sistema sostegno” venga interpretato come minaccia: di sopprimere i “sostegni”. Di voler mandare allo sbaraglio. Di sabotare il percorso dell’integrazione.

Varrebbe la pena domandarsi quale sia l’immagine dell’integrazione che si è diffusa con il “sostegno”.

Proviamo a chiarire che:

  • L’insegnante che chiamiamo”di sostegno” non deve essere un insegnante di serie B.
  • I profili professionali devono essere meglio definiti e rispettati. Riteniamo che questo valga anche per gli Educatori Sociali e Culturali, a volte impiegati per quella che viene chiamata “copertura oraria del sostegno”, ignorando la specificità del loro profilo. Che deve ancora avere una legittimazione nazionale, a molti anni dalla sua presenza diffusa nelle offerte formative degli Atenei italiani.

Aggiungiamo:

  • Un insegnante di sostegno non deve essere un esecutore di programmi scientifici, in una sorta di catena di comando. Deve essere un agente di evoluzione, e quindi capace di supportare innovazioni che possono sembrare trasgressioni. Non può e non deve procedere per inerzia.

Siamo soliti dire che l’Italia ha creato un sistema scolastico inclusivo di cui essere orgogliosi. In parte è vero. Ma si regge in buona parte sul “sottosistema del sostegno”. Che occorre sia “aperto” e capace di contaminare contaminandosi.

In Europa – valutazioni PISA – all’inizio di questo secolo, due paesi hanno praticato un sistema scolastico inclusivo migliorando efficacemente le loro condizioni che erano caratterizzate da una forte segregazione. La Germania ha ridotto il ruolo delle filiere corte di scolarizzazione professionale a vantaggio della scolarità comune. La Polonia ha condotto una politica analoga, allargando la base comune a tutti, e posticipando di un anno l’orientamento nel secondo ciclo.

Il risultato, nei due paesi, è un aumento del livello medio degli allievi un  abbassamento degli scarti di competenze: non sono gli allievi “forti” che  sono meno numerosi, ma i “deboli”, in una importante evoluzione dell’intero sistema scolastico. L’effetto dei “pari” ha giocato un ruolo decisivo.

È in questa prospettiva evolutiva che dovremmo rivedere il nostro “sistema del sostegno”, avviandolo verso un “sistema dei sostegni”.

Chi vive con un suo deficit non dovrebbe vivere tutta la vita “sotto protezione”, o famigliare o del sostegno, anche specializzato in maniera specifica. Deve poter fare incontri di prossimità, scoprendo che chi incontriamo magari per caso è una risorsa. Questo non esclude, anzi, che possa avere bisogno di aiuti più mirati e specifici.

In questo modo, chi vive con un suo deficit non è più solo un fruitore – di aiuti, di assistenza, di sostegno – ma si scopre essere un contribuente nell’economia della conoscenza. Un attore della didattica inclusiva, utile per tutti, innovativa e capace di accrescere le competenze. Purché … non venga “sequestrato” in un “sostegno”, anche molto competente, ma esecutore di programmi ed esclusivo.

 

La necessità di riconsiderare il “sistema del sostegno”.

Questo, come si è detto, è un problema delicato e fonte di molti malintesi. Sembra che il fatto di riconsiderare il “sistema del sostegno” sia percepito come un vero e proprio attacco all’integrazione, e anche agli insegnanti di sostegno. Sembra che vi sia la convinzione diffusa che l’integrazione possa esistere unicamente con e grazie al “sostegno”. Anzi: per  realizzarla più solida, dovremmo avere più ore “di sostegno”, o – come purtroppo si dice – una “copertura” oraria più completa. In questa ottica, vengono utilizzati in ruoli impropri (di insegnanti di sostegno) educatori di cooperative, il più delle volte impegnati da enti locali messi alle strette dalle famiglie e attraverso gare d’appalto che seguono il principio del costo al massimo ribasso.

Riconsiderare il “sistema del sostegno” può voler dire:

  • Rinforzare l’integrazione e avviarla più chiaramente nella prospettiva dell’inclusione.
  • Valorizzare la funzione e la figura dell’insegnante di sostegno all’integrazione, e nello stesso  tempo avviare la stessa operazione per l’educatore sociale e culturale.

Chi ha il compito di “sostegno” può svolgerlo con una dinamica evolutiva, che contenga cambiamenti per coinvolgimenti di altri soggetti, e fare dell’incontro fra soggetto con la sua disabilità e insegnante di sostegno non l’incontro unico, ma  l’incontro che apre ad altri incontri.

Il “sostegno” particolarmente competente può mettere la propria competenza a disposizione di colleghi/e e di quanti sono attivi nel contesto in cui il soggetto con Bisogni Speciali sviluppa la propria vita; e il “sostegno” può favorire la scoperta progressiva dei sostegni di prossimità, composto dai coetanei, e dalle persone che sono nel contorno sociale del soggetto, dall’autista al negoziante, al custode ...

Il “sostegno”, da unico ed esclusivo, può diventare sostegno evolutivo e organizzare, coordinare, esigenze plurime:

    • sostegno strumentale. Già una buona parte dei sostegni umani strumentali possono essere, e lo sono di fatto, sostituiti da ausili, sia poveri che sofisticati. Il problema, a volte, è costituito dalla confusione dei sostegni strumentali con i sostegni affettivi. La confusione può indurre a non servirsi di ausili per conservare il sostegno affettivo …
    • sostegno informativo. Dovrebbe essere chiaro, e semplice, che ciascun essere vivente ha bisogno di assumere informazioni da altri. E’ immaginabile e credibile che un essere vivente abbia tutte le informazioni di cui può aver bisogno un altro essere vivente? Questo accade quando siamo piccoli; o quando ci troviamo in un luogo dove una sola persona fa da interprete linguistico con gli abitanti locali. Ma anche in queste e simili situazioni, l’essere vivente che ha un solo tramite, a poco a poco, anche solo attraverso l’ascolto e l’esposizione agli scambi informativi, impara a servirsi di una pluralità di fonti di informazione. A meno che quell’essere vivente sia considerato a tal punto diverso e speciale da dovere avere un sostegno diverso e speciale.
    • sostegno ricreativo. Le attività extra-scolastiche, a volte molto utili anche per lo svolgimento dell’impegno scolastico, riguardano le attività culturali – biblioteche, musei, teatri, cinematografi, … -, quelle sportive – impianti di gioco di squadra, piscine, percorsi per passeggiate, palestre, … -, quelle associative – scoutismo, associazioni per la lotta alle illegalità, associazioni parrocchiali, … -, eccetera. Tutte queste attività possono e devono diventare accessibili, culturalmente e materialmente. E chi vive con Bisogni Speciali può diventare agente di cambiamento.
    • sostegno emotivo. Un “sostegno” unico e totale può involontariamente impedire i rapporti di amicizia, o anche modellarli su sentimenti pietistici. Il sostegno emotivo di cui ciascun essere vivente ha bisogno può contenere momenti di contrasto – le litigate infantili – che possono essere superati grazie e mettendo alla prova il sostegno emotivo fornito dall’amicizia e dalla rete sociale.
    • sostegno affettivo. Gli affetti si sviluppano dalle figure genitoriali alle amicizie e agli innamoramenti … Questa prospettiva non esclude la possibilità che vi sia un supporto psicologico.

Come é importante che "sostegno" sia uno spazio aperto a incontri, che possono essere produttivi anche con persone non in possessori titoli di specializzazione ... e non sia fondato sulla gelosia che si appoggia alla presunzione di essere l'unico sostegno ...

Leggiamo quanto scrive una mamma, Alessia Brunetti:

“Ieri alla festa della parrocchia, Emanuele era con i suoi compagni di classe. Che sanno che lui ha alcune particolarità e se non prendono cura.

Se lui va in mezzo alla pista mentre ci sono gli sbandieratori, un suo compagno lo va a prendere e con il sorriso lo riporta indietro. Se si allontana, i suoi amici lo ripescano. Il tutto in un grande clima di amicizia, risate, abbracci e pacche sulle spalle da veri piccoli uomini. E lo riprendono se fa qualcosa che non va.

Cenavano allo stesso tavolo e ad un certo punto Samuele mi ha chiamato, per dirmi che Emanuele aveva contato fino a 10 con le dita delle mani! Era stata Melissa a proporre di fare tutti questo gioco e faceva contare Emanuele alzando un ditino per volta.

Insieme ai suoi compagni è stato seduto 30 minuti per terra nell’aspettare che un piccolo spettacolo teatrale iniziasse.

Tempo fa sono andata a leggere un libro per bambini nella scuola di Emanuele e quando gli altri mi hanno visto, due mi hanno chiesto se ero la mamma di Emanuele e poi Alessio ha detto: “ io sono il miglior amico di Emanuele!” e poi Francesco “no, sono io il miglior amico di Emanuele!”… in realtà il miglior amico di Emanuele è Samuele, che ha chiesto alle maestre di metterlo vicino di banco ad Emanuele e che non si vuole più spostare.

Samuele ogni volta che Lele fa qualche stranezza, ride e lo “ripesca”.

Francesco invece ha attenzioni anche per Maria Luce. Che magari non riesce a fare le cose che fanno i bimbi di 6-7 anni (lei ne ha quasi 4) e quindi rimane indietro ….e Emanuele non riesce ad aiutarla …

Francesco allora la prende per mano e la porta lui, come farebbe un fratellino maggiore.

Ieri sera avrei potuto non esserci, nel gruppo di amichetti di 6 anni tutti funzionavano bene e si sorreggevano a vicenda”.

 

 

Il solo essere vivente in cui appare “spontaneamente” l’utilizzo del dito per indicare un oggetto, è il piccolo umano. È la stimolazione  significante [B. CYRULNIK (1995), La naissance du sens, Paris, Hachette, p. 53].

 

 Nella storia dell’Anffas bolognese c’è stata, e speriamo ci sia oggi e in futuro, una parola importante: accompagnamento. Verso dove? Dove chi viene accompagnato deve andare. Non, quindi, dove vuole andare chi accompagna. Non è un aspetto secondario. E chi accompagnalo  fa con i suoi sentimenti, le sue convinzioni …

Sottolineiamo tre conseguenze:

  • La personalizzazione.
  • La rottura della polarizzazione normale/handicappato.
  • Il percorso piuttosto che la collocazione.

Ma aggiungiamo una considerazione che riguarda il fatto che chi accompagna non fa di professione l’accompagnatore. La conseguenza è una domanda: con l’ingresso di operatori professionali, chi accompagna scompare, o diventa un utile collaboratore di un operatore professionale? La risposta è nel significato che attribuiamo a prossimità. Parole che può stare in evoluzione.

 

Essere adulti, ovvero poter fare degli incontri. Anche imprevisti.

 

Il lavoro ha una prospettiva progettuale, ed è rivolto alla realizzazione di un progetto il più possibile condiviso e partecipato. Per questo, è bene  focalizzare l’attenzione su alcuni punti:

  • dinamica di partecipazione nell’affrontare la realtà
  • valorizzazione dell’esistente in una prospettiva progettuale
  • logica dell’accompagnamento nel progetto di vita (dalla percezione di percorso costituito da segmenti alla costruzione di un percorso personalizzato capace di dar vita a proposte riabilitative domiciliari, sociali, laboratoriali, residenziali per solo alloggio, residenziali con accoglienza completa ecc.)
  • impegno nella gestione educativa (ragionare secondo la logica del gruppo compatibile e non del gruppo omogeneo)
  • logica ICF in riferimento a micro contesti
  • accompagnamento competente, che si modula nelle situazioni di vita  a seconda delle esigenze
  • lavoro dell’operatore come affiancamento ed esplorazione
  • lavoro caso per caso nel progetto di vita
  • distinzione tra il momento del giorno e della notte; luoghi che non dovrebbero coincidere
  • chiarimento dei profili professionali
  • territori o aree tematiche da esplorare: tema trasversale delle tecnologie per ridurre l’handicap; area dei beni culturali; area dell’artigianato; area “filiera dell’agro-alimentare”
  • osservatorio economico dell’inclusione: per valutare quanto la spesa sia investimento produttivo e quanto sia assistenzialismo; e permettere la definizione di nuovi obiettivi. Dimensione comparativa.

 

Nell’accompagnamento convivono due elementi:

  • l’essere insieme essendo collegati da un interfaccia che permetta di tenere insieme le differenze. Questo elemento può essere sviluppato utilizzando parole/concetti quali “alleanza solidale”, “autonomia solidale”, “processo reciproco”…
  • l’essere insieme in una prospettiva che investe sul futuro, sulla prospettiva progettuale

Questi due elementi costituiscono il paradosso dell’accompagnare: essere insieme per separarsi. Introduciamo una citazione che ci aiuta a completare il senso del paradosso: “Le capacità dell’uomo di rielaborare quanto da lui percepito tenendo conto delle esperienze già immagazzinate e di rifletterci sopra sono praticamente inesauribili, malgrado i limiti materiali del suo cervello. Il sistema nervoso centrale è un <sistema aperto> a cui continuamente affluisce informazione, che viene subito filtrata modificata e incorporata secondo criteri gerarchici. L’informazione non è soggetta ad alcuna legge di conservazione. In base ai processi dinamici che si svolgono nel cervello, essa si genera in modo selettivo, irreversibile ed evolutivo. Essa ha il carattere di una Gestalt nel senso coniato dalla psicologia”(M. Eigen, R. Winkler, 1986, p. 271).

La rielaborazione della propria percezione è conquista di autonomia. E il paradosso consiste nel fatto che tale rielaborazione è favorita da un accompagnamento “evolutivo”, ed è impedito da un accompagnamento “ripetitivo”. La distinzione fra questi due tipi di accompagnamento può essere particolarmente problematica in condizioni di scarsa autonomia funzionale. Se una persona ha bisogno costantemente di appoggiarsi a un’altra persona perché diversamente non può muoversi, quella distinzione può sembrare astratta e forse irritante. Però possiamo avere diversi modi di accompagnare. E le differenze non sono vistose e tuttavia sostanziali:

  • accompagnare dove vuole l’accompagnatore
  • accompagnare stabilendo prima insieme dove (ad esempio: mostrando diverse immagini di luoghi raggiungibili e facendo scegliere l’immagine del luogo ove recarsi …)
  • accompagnare spingendo la carrozzella
  • accompagnare affiancando la carrozzella azionata, magari a motore, da chi viene accompagnato
  • accompagnare sostenendo sotto braccio
  • accompagnare facendo il percorso con chi viene accompagnato e si sostiene utilizzando un bastone.

Ci sono molte altre possibili sfumature. Sottolineiamo la necessità di distinguere il piacere di accompagnare dalla sua necessità funzionale. Se vengono confusi, ovvero fusi insieme, il piacere della compagnia e la necessità di essere sorretto, il timore di perdere il primo sarà un potente motivo di resistenza a fare evolvere la seconda. E’ molto difficile vivere un accompagnamento che non riesce a distanziare piacere e funzione (necessità). Senza questa distanziazione, si creano delle funzioni insostituibili. Distanziando, la necessità può essere assunta da chiunque riesca a riprenderne la funzione correttamente; mentre il piacere dell’accompagnamento non può essere assunto da chiunque. Ma questo permette di fare evolvere la condizione di chi ha bisogno di accompagnamento e può ritrovare il piacere dell’accompagnamento attraverso qualche collegamento con telefono cellulare.

 

M. EIGEN, R. WINKLER (1986; 1985), Il gioco. Le leggi naturali governano il caos, Milano,Adelphi.

 

 

 

 

Partire dall’esistente…

Il problema della scelta di una logica, vede da un lato un sistema residenziale totale, e dall’altro la costruzione di un “menù personalizzato” che sia capace di capire i bisogni del singolo evitando una risposta totalizzante (per esempio la sola residenza).

E’ importante avere dei punti di riferimento: prendere in considerazione l’ ICF attraverso una logica dei contesti ( al plurale!) in modo da avere differenze di rendimenti. Ragionando per contesti possiamo fare delle prove e scoprire che un individuo può essere bravo in un contesto e molto bravo in un altro.

Questa logica  è utile anche al fine di vedere meno discontinuità sia di rendimento che di comportamento ecc. Può essere un indicatore di evoluzione.

Paradossalmente dovremmo fare l’elogio della disobbedienza: vedere qualcosa di inaspettato può essere interessante. Vedere nella discontinuità degli elementi di possibilità.

Ci si può domandare se a 50 anni non c’è più possibilità di evoluzione? gli ausili ci aiutano in questo senso e l’Ausilioteca Regionale Emilia-Romagna fornisce già un utile sistema di ricerca di risposte positive. Segnaliamo:

  • la possibilità di stare al passo con i tempi della tecnologia e delle sue novità.
  • la possibilità di fornire un aiuto per la personalizzazione degli ausili.

 

 

Strumenti e linee di sviluppo utili per individuare aree tematiche per poter immaginare il futuro di persone con disabilità:

  1. AREA AGROALIMENTARE
  2. AREA dell’ ARTIGIANATO
  3. AREA dei BENI CULTURALI

 

Come muoversi:

- per riflettere sul modo di lavorare è utile soffermarsi sui profili professionali, che sono diversi dai profili di competenza. Anche per scoprire se le persone che lavorano lo fanno in concordanza con le proprie competenze, ma anche per poterle accostare alle aree di cui sopra.

- possibilità di avere strumenti di osservazione organizzati secondo una logica ipertestuale. Le operazioni da svolgere riguardano più livelli (sia superficiali che profondi) e vogliono abbracciare più punti di vista ( sia quelli dei professionisti che dei familiari).

Logica innovativa partendo dall’esistente.

 

 

… ma non fermarsi.

Le persone con disabilità non divengono mai adulte? E’ del tutto comprensibile che le famiglie desiderino che il loro congiunto, al di là dell’anagrafe, rimanga all’interno del Servizio Minori: la disabilità si manifesta nell’infanzia, e finché si è in quell’età, i cambiamenti sono possibili. E’ un desiderio che va letto come richiesta di vivere un’evoluzione. Nello stesso tempo, rischia non volendolo, di consolidare un modello assistenziale. Avendo consapevolezza che non esiste una presa in carico consolidata del disabile adulto, è importante lavorare per produrre qualcosa che non è ancora stato fatto.

Poniamo in evidenza la necessità di dare valore e sviluppare l’assistenza domiciliare, dunque anche lo spostamento degli operatori.

L’area dell’artigianato rappresenta un’opportunità non solo per la persona con disabilità, ma anche per l’artigiano. Questi vede messa a rischio la trasmissione dei saperi e la propria vita commerciale a causa dei costi che non riesce ad affrontare. Per questo sarebbe opportuna una tutela sociale. Ciò permetterebbe nello stesso tempo di dare la possibilità ad una persona con disabilità di passare una giornata al fianco di un artigiano, con costi vantaggiosi rispetto alla creazione di nuovi posti alloggio. Quello che si vuole evidenziare riguarda la possibilità di uscire dalla logica della struttura per approdare a nuovi contesti, esterni, in cui avviare attività anche laboratoriali avvalendosi delle competenze di quegli operatori prima citati.

Per quanto riguarda l’area dei beni culturali, si suggerisce ad esempio la possibilità di restaurare da parte di artigiani, edifici industriali abbandonati, per avere in cambio un posto gratuito per il proprio negozio e nello stesso tempo per poter accogliere persone con disabilità.

 

  1. Percorso di verità.

La verità dei depositi.

Alcune riflessioni di accompagnamento:

  1. L’esistenza di depositi è impegnativa per chi cura la formazione. Se la formazione, di base e permanente, di una professione ha la presunzione di costruire competenze professionali da zero, sciaguratamente taglia ogni possibilità di approvvigionamento dai depositi. Purtroppo è quello che accade sovente. Sarebbe meglio partire da alcune domande: a quale serbatoio di competenze accumulate dalla storia sei già collegato/a? A quello di tua nonna, ad esempio? Come possiamo assicurarne la manutenzione? E a quali altri depositi, specifici per questa formazione, possiamo collegarci e collegarti? E ancora: come possiamo fare in modo che la miscela di più depositi non crei un inquinamento ma assicuri un potenziamento? Cioè: non sia confusa ma integrata nelle sue diverse componenti? Rispondere a queste domande è fare formazione. Forse apre le strade al possibile. Le chiude se ha troppe certezze, che soffocano le poche che meritano di essere prese sul serio. Che non è prenderle alla lettera.
  2. Le Nonne possono essere il simbolo, che affonda nel tempo, di competenze straordinarie e nascoste. Il nascondiglio più semplice e misterioso: sotto gli occhi di tutti, che però proprio per questo non vedono. E’ competenza di donne, quella che si avverte quando manca.
  3. L’abbiamo ritrovata in certe Bidelle, educatrici straordinarie per capacità di essere organizzatrici di spazi e tempi, punti fermi di uno scenario che avrebbe inquietato qualche ragazzo e qualche ragazza se non ci fosse stata la Bidella, forse un po’ burbera, ma chiara e sicura. E l’abbiamo ritrovata in qualche Educatore e qualche Educatrice, che ha riconosciuto che alcune competenze –ovvero passioni che sono diventate competenze – sono state trasmesse dalla Nonna.

Passione per la cucina

Trasmessa dalla nonna

Apprendimento dell’arte della cucina

Attraverso la documentazione

Attraverso l’osservazione

Attraverso le spiegazioni orali-pratiche della nonna

Tutto questo all’interno di un contesto affettivo forte (amore, stima, rispetto)

Dall’apprendimento del saper cucinare (1°COMPETENZA) derivano una serie di competenze

 

Rispetto delle regole

 (ad es. la farina non si tira addosso perché brucia gli occhi, fa starnutire, ecc., bisogna fare attenzione con i coltelli, a così via.

Dall’apprendimento del saper cucinare (1°COMPETENZA) derivano una serie di competenze

Lettura della ricetta o rievocazione nella memoria

Comprensione del testo (sequenza delle azioni da svolgere)

Misurazione con bilancia e altri strumenti (concetto di peso, di unita di misura, corrispondenza teorico-pratica)

Sviluppo sensibilità (odorato, gusto, tatto, vista)

Esecuzione pratica

Sviluppo motricità fine e coordinazione

Rispetto della sequenzialità delle azioni da svolgere

Possibile sviluppo del linguaggio (es. arricchimento lessicale e verbalizzazione: esplicitando ciò che si deve fare o si sta facendo

Concetto Temporale (es. tempo di riposo, di lievitazione, di cottura)

Sviluppo dei concetti di proporzione (quali pentole, terrine, teglie utilizzare, perché utilizzarle proprio di quella misura e forma)

Evitare i pericoli (es: evitare di bruciarsi o di tagliarsi: interiorizzazione di ciò che si è sentito a parole o dall’esperienza diretta)

 

 

  1. A volte buttiamo via le competenze della Nonna, in nome della scientificità. Che non è un optional. Ma neppure un idolo a cui sacrificare quelle competenze. È una dimensione etica. Permette  di confrontare e cambiare, correggersi. Di avere dei parametri e non degli atti di fede cieca. Aiuta a produrre argomentazioni documentate e non appelli alla fiducia. Richiede l’etica della competenza. E non la vocazione che vuol sedurre. Lavora sui propri limiti, e non sulla propria presunzione di infallibilità. Cambia direzione, se necessario, dicendo perché. Non spreca ma utilizza, creando nuove pietanze. Vive  e non  replica. Non vuole avere ragione ad ogni costo, ma sa prendersi un po’ in giro non presumendo di sapete tutto.
  2. L’Educatore Sociale è un bricoleur lavora con ciò che trova, e spesso con ciò che si butta via e lui raccoglie. L’ingegnere lavora con elementi predefiniti, e tali da poter collocarli con precisione nel suo progetto. Che quindi esiste già. Il bricoleur lavora avendo un’idea, ma tale da poter essere integrata, e cambiata, da ciò che incontra e gli suggerisce il progetto. L’artigiano trova le soluzioni che gli suggerisce il materiale con cui lavora.

“La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace […]. E’ certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dell’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna,che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese” (P. Levi, 1982, pp. 12-13).

 

Dire la verità. Cominciando a non dire falsità.

 

Enzo Pace ha studiato il fenomeno del fondamentalismo religioso contemporaneo. Il titolo del suo studio riprende un’espressione di Foucault: il fondamentalismo pretende di essere un regime della verità. E come lo pretende? La verità è un’esperienza diretta del sacro. L’esperienza diretta è fondante. Inoltre, il fondamentalismo si basa sulla convinzione di essere al centro di una minaccia e di un pericolo collettivi. La paura è direttamente proporzionale al bisogno di riporre ogni salvezza in una fede, in luoghi di fede, in un gruppo iniziato alla stessa fede. Esperienza diretta fondante la verità e sindrome da accerchiamento: ecco i tratti più caratteristici del fondamentalismo. Il regime della verità è anche il regime della paura.

 

“L’analisi delle realtà quotidiane che costituiscono l’esperienza […] è divenuta gradualmente possibile solo perché l’uomo è divenuto via via capace di meravigliarsi dei fenomeni più consueti, il che presuppone da parte sua la capacità di immaginare le cose diversa da quello che sono, cioè di costruirsi un mondo ideale col quale siano confrontati i dati dell’esperienza. Davanti al fatto banale di un frutto che cade, bisognava essere Newton per cercare di spiegarselo con le leggi di gravitazione “ (H. Wallon,1967, p. 197)

 

La teoria della mente.

La possibilità di spiegare e a prevedere le proprie azioni e quelle degli altri agenti intelligenti, avendo una mente che osserva l’altra e può pensare: “forse io penso che …” oppure “forse lui/lei pensa che …”

 

L’originalità di una situazione (verità) e la sua collocazione nella banalità della categoria. Ad esempio: il racconto originale di reduci sopravissuti ai campi della morte e la collocazione nei racconti di guerra …

 

“Ricordo così un uomo che minacciava di gettarsi insieme a suo figlio dalla Torre Eifel. Polizia, psichiatrie pompieri vennero mobilitati. Ma lo spiegamento di forze non fece che accrescere le minacce proferite dall’uomo. Arrivò una giovane esterna degli Ospedali di Parigi. Con aria stordita gli disse: <Attenzione alle correnti d’aria, il bambino prenderà freddo>. La crisi dell’uomo cedette di colpo. Non fece alcuna opposizione e discese i gradini con la massima calma. Il fatto è che la parola veniva da un luogo diverso dall’immaginario persecutorio dell’uomo ridotto allo stremo e, in un certo modo lo risvegliava dal suo delirio” (M. Mannoni, 1993, p. 53).

 

“Riflettiamo: in quanto apparato sensoriale, la pelle è il più importante sistema organico del corpo. Un essere umano può trascorrere la vita cieco e sordo o completamente privo dei sensi dell’olfatto e del gusto, ma non può sopravvivere senza le funzioni proprie della pelle. L’esperienza di Helen Keller, che era diventata cieca e sorda nell’infanzia, la cui mente fu letteralmente creata attraverso la stimolazione cutanea, ci mostra che, quando mancano altri sensi, la pelle può compensare in grado elevato la loro mancanza […]” (A. Montagu, 1975, p. 13).

 

“Il cammino inaugurato da Abrahamo ha avuto significativi epigoni fra i quali il filosofo Emil Cioran a cui dobbiamo questo gioiello aforistico: < Un uomo che si rispetti non ha una patria. Una patria è una colla>. Ma già nell’undicesimo secolo Ugo da San Vittore aveva scritto con penetrante grazia: <L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero>” (M. Ovadia, 2002, p. 35).

 

“La tua menzogna può essere utile ai tuoi (perversi e sbagliati) piani solo perché tu presumi che tutti accettino la norma della verità, non della menzogna. Per essere menzognero tu devi volere la verità degli altri, mentre tu ti esenti dal perseguirla. Quindi, di nuovo, ti poni nella posizione dispotica di volere che tutti, eccetto te, sottostiano alla regola della verità.

La menzogna non può essere condizione di dialogo dunque, perché non può essere condizione né di giustizia né di umana convivenza” (N. Urbinati, 2002).

 

“Una verità che io immagino come assoluta, togliendole quindi ogni relazionalità – che è l’essenza della verità – per definizione non è verità, nemmeno quella che viene presentata come divina. Quindi  smascherare questa piaga dell’umanità è un progresso, che è necessario operare in questo momento storico. Dove il contrario non è l’indifferenza, non è affermare che la verità non esiste. La verità esiste, ma è relativa: a noi, ad una mente, a qualsiasi cosa. […] La relatività non è relativismo: la verità è relativa. Ma per superare il relativismo non si deve cadere nell’assolutismo. Il rimedio sarebbe peggio della malattia. Il relativismo non va bene, ma la relatività implica di non perdere la misura umana. Non si progetta su un punto omega infinito. […] abbiamo necessità di comprendere che la verità, forse, quando cade dal cielo sulla terra si rompe in cento pezzi, un pezzetto a disposizione di ciascuno” (R. Panikkar (2007).

 

Note bibliografiche:

P. LEVI (1982), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.

E. PACE (1990), Il regime della verità, Bologna, Il mulino.

H. WALLON (1967; 1963), Il reale e il mentale, Firenze, La Nuova Italia.

M. MANNONI (1993; 1988), Cosa manca alla verità per essere detta, Roma, Borla.

A. MONTAGU (1975; 1971), Il tatto, Milano, Garzanti.

M. OVADIA (2002), Vai a te stesso,Torino, Einaudi.

N. URBINATI (sett. ott. 2002), La bugia, Forlì, in “Una città”.

R. PANIKKAR (9.10. 2007), Il tempo del perdono e la logica del perdono, in “La Repubblica”.

 

  1. L’omogeneità, selettiva, permette di procedere in maniera seriale. Non si riferisce ad una pluralità di validità, ma ad una validità seriale. Che costituisce una faccia della medaglia. L’altra faccia è costituita dall’invalidità seriale. La procedura seriale semplifica molte cose. L’insegnamento e i servizi.

In un’altra logica incontriamo il termine empowerment, come possibilità di incrementare le capacità di auto-organizzazione dell’individuo. Riferendosi alla sua individualità originale e non seriale.

Bertolt Brecht scrisse, nel 1930, L’eccezione e la regola, che definì rappresentazione didattica. E’ un apologo che racconta “la storia di un viaggio compiuto da uno sfruttatore – il mercante - e due sfruttati” - un portatore e una guida. Il Mercante uccide il Portatore che gli offriva da bere porgendogli una borraccia. Come poteva il Mercante immaginare, nel contro sole, che il Portatore non volesse ucciderlo con una pietra, e volesse invece offrirgli da bere? Era un Portatore “eccezione”. Il Mercante viene assolto dal giudice perché  si è comportato secondo la regola (seriale). Il Giudice canta: “La regola è: occhio per occhio! / Il folle si aspetta l’eccezione. / Che il suo nemico gli offra da bere / non può aspettarsi l’uomo saggio”. Poco prima, il Mercante aveva detto: “Bisogna basarsi sulla regola, non sull’eccezione”.

L’ empowerment è la possibilità di incrementare le capacità di auto-organizzazione dell’individuo. Alimenta la responsabilità sociale.

 

 

  1. Welfare di prossimità.

Partiamo da ciò che diceva Nadine Gordimer (1923-2014): la solitudine  è vivere senza responsabilità sociali. Parliamo di prossimità perché il prossimo può essere uno sconosciuto, uno che arriva da lontano, uno che raggiungiamo facendo un lungo percorso. Il prossimo non è detto che sia legato al campanile. Potrebbe essere legato al minareto. Le responsabilità sociali non selezionano. Sarebbe insensato, per tante ragioni. La più evidente riguarda il fatto che respiriamo la stessa aria e stiamo sotto lo stesso  cielo: se uno qualsiasi inquina, tutti ne pagano le conseguenze.

Parliamo di welfare di prossimità perché il welfare istituzionale, basato su standard predefiniti, attualmente non funziona. Non è questione della crisi. E’ questione di  un modello obsoleto. Basato su bisogni codificati e categorizzati, per rendere standardizzate e controllabili le risposte. Controllabili nel senso che non devono fornire sorprese. Tutto deve stare in caselle, in parametri, predefiniti. Il prossimo, il welfare di prossimità vuol dire l’inatteso. Che, attraverso mediatori umani o materiali, va messo nella rete. Se il welfare istituzionale non funziona, perché dovrebbe funzionare il welfare di prossimità?

Dobbiamo costruirlo affrontando diversi problemi. Vediamoli.

  • Bene comune o benessere per me e per noi.

Occorre lavorare per fornire degli indicatori che permettano di evidenziare l’apporto che ciascuno fornisce o potrebbe fornire se … al bene comune. E occorre fornire una idea-quadro del bene comune stesso.

  • Il ruolo della politica.

La parola stessa politica ha bisogno di essere ricompresa. Non riguarda i “politici”! Riguarda i cittadini, cioè tutti. Ma in questa comprensione ci si trova ad affrontare il virus che ha invaso la politica: la corruzione. Non possiamo cavarcela con la dichiarazione che i politici sono tutti corrotti. La corruzione è come l’inquinamento dell’aria. La respiriamo  tutti.

  • Una società giusta e solidale. Ed economicamente sana.

Le organizzazioni come ad esempio le cooperative sociali non possono ritenersi esentate dalla buona amministrazione in nome della solidarietà. Devono saper gestire, avendo la lungimiranza che permette di capire che l’uscita dalla crisi, quando avverrà, non riporterà a poter contare su sussidi e assistenze. Non dovrebbero neanche più accettarlo.

  • Custodire.
  • La memoria. Che può essere un fardello pesante, per una cultura che si vanta di essere migliore di tante altre.
  • Il territorio, che vantiamo come tra i più belli del mondo saccheggiandolo, cementificandolo, esaurendolo e affaticandolo, inquinandolo e prostituendolo.
  • Le diversità che sono il mondo.
  • Le speranze che accompagnano tanti che cercano, che chiedono, che migrano.
  • Manutenzione come capacità di stare, anche invisibili, nell’imperfetto perfettibile.

La compagnia dell’imperfetto esige mediatori, umani e materiali, per formare continuamente una rete, da percorrere, da rattoppare quando si strappa, da rinforzare sapendo “fare nodo”, sapendo scomparire nell’intreccio, e riapparire per proseguire.

 

 “Il problema è che per fare l’educatore devi inventare sempre nuovi appuntamenti, nuove attese … ma se non hai un progetto, anche un progettino piccolo, è un guaio …” (Sergio Neri).

 

Stanislas Dehaene, Jean-Pierre Changeux, Lionel Naccache e altri, cercano di rispondere ad alcune domande:

  • Cosa significano le “firme” della coscienza che sono state individuate (da questi neuro scienziati)?
  • Perché questi segni oggettivi riflettono l’introspezione soggettiva?“

La  teoria dello Spazio di Lavoro neuronale Globale” tenta di rispondere a queste domande.

L’ipotesi di partenza  è semplice: la coscienza non è altro che la condivisione globale di un’informazione. Il cervello umano ha delle reti di connessione a lunga distanza, in particolare nella corteccia prefrontale, il cui ruolo è di  selezionare le informazioni più pertinenti e diffonderle all’insieme del cervello.

La teoria dello Spazio di Lavoro Globale, proposta da Bernard Baars, vuole fornire un modello di coscienza.


Bernard Baars (1946 - vivente), neuroscienziato, insegna attualmente al Wright Institute, a Berkeley, in California. E' co-editore della rivista Consciousness and Cognition.
Nella sua opera più nota,
A Cognitive Theory of Counsciousness (1988), Baars propone una teoria della coscienza che chiama teoria dello spazio d'azione. Tale teoria è stata ripresa e sviluppata in un'opera successiva, In the Theater of Counsciousness: the Workspace of Mind (1977). La tesi centrale del neuroscienziato americano è che il cervello sia organizzato in maniera funzionale intorno a uno spazio d'azione globale, dove possono essere elaborati solo pochi elementi alla volta. Si tratta di un'idea che ha molti punti in comune alla concezione del Teatro Cartesiano di Dennett: i pochissimi elementi presenti a un dato istante nella coscienza corrispondono a quelli posti al centro del palcoscenico. Baars immagina dunque la coscienza come una scena illuminata da un riflettore il cui fascio di luce permette di vedere solo parte di ciò che avviene sul palco. Ciò che rende cosciente un evento è dunque la sua elaborazione all'interno dello spazio d'azione globale e la sua trasmissione val resto del sistema. Il punto forte di questa teoria è che essa stabilisce con chiarezza quali cose dovrebbero essere coscienti, ossia quali occupano lo spazio d'azione diventando globalmente disponibili.

 

Daniel Clement Dennett è nato a Boston nel 1942. Nel 1987 è stato nominato socio dell'American Academy of Arts and Sciences. Dal 2000 è professore di filosofia presso la Tufts University.

Dennett ha affrontato il tema della coscienza, muovendosi in una prospettiva funzionalistica.
Dennett non nega l'utilità di attingere dati dalla soggettività individuale, ma nello stesso tempo ci invita a considerare con sospetto questi dati. L'evidenza con cui essi si presentano a un determinato soggetto non costituisce affatto una garanzia circa la loro veridicità. Dennett critica la tendenza diffusa tra i ricercatori a pensare che i sistemi percettivi forniscano "segnali in ingresso" a una qualche area centrale del cervello, la quale, a sua volta, utilizzi tali segnali per impartire comandi relativamente periferici che controllano i movimenti del corpo. Questo modello presuppone l'esistenza di un centro nel cervello verso il quale tutti i segnali convergono dando luogo al fenomeno della coscienza. Dennett chiama questa concezione
Modello del Teatro Cartesiano. Essa afferma l'esistenza di un ordine, di una linea d'arrivo in una parte definita del cervello, a seconda della quale l'ordine d'arrivo in quel punto corrisponde all'ordine con cui le esperienze "si presentano" al soggetto, poiché ciò che accade lì è precisamente ciò di cui diveniamo coscienti. 

Il fatto è che noi non abbiamo esperienza diretta di quanto avviene sulla nostra retina, nelle nostre orecchie, sulla superficie della nostra pelle. Nella nostra effettiva esperienza rientra soltanto il prodotto finito di questi diversi processi di interpretazione.  Dennett riporta alcune situazioni sperimentali che mostrano come possiamo essere ingannati da ciò che appare. Ad esempio, dati due fenomeni collegati tra loro in rapida successione, in certi casi accade che nel nostro vissuto soggettivo il secondo influenzi il primo ancor prima di essersi verificato. Fenomeni del genere, osserva Dennett, sono piuttosto difficili da spiegare per mezzo della concezione che collega i contenuti di coscienza con l'arrivo di segnali in un determinato punto. Infatti, l'unica spiegazione razionalmente accettabile è che la percezione dei due eventi sia il risultato di una rielaborazione successiva. Le due esperienze distinte non fanno a tempo ad essere colte dalla coscienza come tali o, se ciò accade, esse vengono subito "spazzate via dalla memoria e sostituite da un documento falsificato" che ci presenta l'influenza del secondo evento sul primo come qualcosa di operante sin dall'inizio.

Alla luce di questi indizi sperimentali, Dennett giunge a concludere che non esiste un luogo centrale, un Teatro Cartesiano dove "tutto converge" per essere esaminato da un osservatore privilegiato. La coscienza non sarebbe quindi una questione d'arrivo a un determinato luogo cerebrale, quanto piuttosto di attivazione che supera una certa soglia sull'intera corteccia o su larga parte di essa.  Al posto della concezione del Teatro Cartesiano, in cui opera un flusso lineare di processi che si succedono in maniera ordinata e sequenziale, Dennett propone quella delle Molteplici Versioni, costituita da un certo numero di circuiti in stretta interconnessione tra loro, che operano in parallelo. Secondo tale concezione, l'unità dell'esperienza cosciente non viene ottenuta riconducendo l'attività dei diversi moduli in cui può essere idealmente suddivisa la corteccia cerebrale a un centro finale, che agisce da "collettore", bensì deriva dal loro funzionamento strettamente integrato e interdipendente. Se il Sé - sostiene Dennett - è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se tutti i fenomeni della coscienza umana rappresentano soltanto i prodotti dell'attività di una macchina virtuale realizzata con connessioni variamente modificabili del cervello umano, allora, in linea di principio, un robot opportunamente "programmato" con un cervello costituito da un calcolatore al silicio, sarebbe cosciente, avrebbe un sé. Cfr. D. DENNET (1993; 1991), Coscienza. Che cos'è, Milano, Rizzoli.

 

La coscienza è un dispositivo evoluto che ci permette di mantenere l’informazione in linea. Una volta diventata cosciente, un’informazione può essere inviata qualsiasi altra regione del cervello, in funzione dei nostri obiettivi. E quindi può essere nominata, valutata, memorizzata, incorporata nei nostri piani di azione. Cfr. S. DEHAENE (2009), Le Cȏde de la conscience, Paris, Odile Jacob, p. 223. La teoria dello spazio di lavoro neuronale globale tiene conto di molte osservazioni sulla coscienza e i suoi fondamenti cerebrali. Spiega perché prendiamo coscienza solo di una piccolissima parte delle conoscenze immagazzinate. Prima di diventare cosciente, un’informazione deve essere codificata da un gran numero di neuroni attivi. Cfr. S. DEHAENE, Op. cit., p. 271.

 

La coscienza ha una funzione adattiva nei confronti dell’ambiente.

  • Integrando informazioni multimodali e processi cognitivi superiori.
  • Focalizzando l’attenzione.
  • Cercando e integrando informazioni nuove.
  • Perfezionando processi decisionali.
  • Correggendo errori.
  • Rendendo flessibili i percorsi.
  • Controllandoli.
  • Auto monitorando il progetto.

 

L’autonomia è il primo compito del sistema nervoso. L’attività neuronale intrinseca comanda e domina sull’eccitazione esterna. Il nostro cervello non si abbandona mai passivamente all’ambiente, ma genera continuamente le proprie configurazioni di attività. Nel corso della crescita, le configurazioni utili sono conservate, mentre le altre scompaiono con l’apprendimento. Cfr. S. DEHAENE, Op. cit., p. 259.

 

 

Dobbiamo considerare che il nostro cervello non è una tabula rasa in cui si accumulano delle costruzioni culturali. E’ un organo fortemente strutturato che realizza il nuovo utilizzando il vecchio. Per apprendere nuove competenze, ricicliamo i nostri vecchi circuiti cerebrali di primati, nella misura in cui questi tollerano un minimo di cambiamenti. Cfr. S. DEHAENE (2007), Les neurones de la lecture, Paris, Odile Jacob.

 

Le reti sociali, indispensabili, possono essere esclusivamente virtuali? Il rischio della de contestualizzazione, dovuta a dati e informazioni che si elidono fra loro – come avviene con le telefonate con il cellulare, in cui le mimiche, pur importanti a volte, sono invisibili per l’interlocutore -.

 

Un’esperienza che procede in maniera fortemente ripetitiva, rischia di perdere capacità di informazione (assenza di salienza). Diventa ridondante e viene esclusa dalla coscienza. L’attenzione all’ambiente, con le continue variazioni – climatiche, dei flussi di popolazioni, meteorologiche, eccetera – può evitare questo blocco. E può permettere una maggiore attenzione alla salienza anche minima. Si possono così prevenire danni.